L’8 settembre 1943, data dell’annuncio dell’armistizio con gli Alleati e della fine dell’alleanza militare con la Germania, segna anche la dissoluzione dell’esercito italiano e la cattura di centinaia di migliaia di militari, a causa della mancanza di precise disposizioni da parte dei Comandi militari.
Vinicio Bagni era arruolato in marina e si trovava a Rodi sul Monte Vilka nella “Batteria Navale Dandolo”. Ha lasciato due scritti autobiografici: Tragedia e mistero in Egeo. L’affondamento della motonave Donizetti e Memorie (10 ottobre 1942-8 marzo 1946 sia all’archivio storico comunale che all’archivio diaristico nazionale di Pieve S. Stefano e sono consultabili liberamente. Nato nel 1923, Vinicio Bagni è scomparso lo scorso luglio e si è impegnato con continuità nella sezione empolese dell’Associazione Nazionale Combattenti e Reduci.
Nel 2010 Bagni rilasciò anche una breve e significativa intervista a Gonews, in occasione delle iniziative per i 70 anni della partenza dei volontari: http://archivio.gonews.it/articolo_49185_Storia-giovani-partirono-Liberazione-video-racconto.html .
Pubblichiamo un brano tratto dalla prima opera, che copre i giorni dall’8 al 24 settembre 1943.
«Mercoledì 8 settembre 1943, la giornata era stata tranquilla, Nel tardo pomeriggio ero smontato dal turno di guardia e mi trovavo all’interno del dormitorio marinai nella Caserma Comando. Ad un tratto sentii urlare ma senza capire bene. Corsi fuori, dalla stazione Radio venivano dei marinai correndo e dicevano “La guerra è finita, c’è l’Armistizio”. Il Sottotenente venne ad informare il Capitano Giglioli che il giornale radio delle ore 19.45, captato dalla nostra stazione, aveva comunicato che il Governo Italiano, nella impossibilità di difendere il territorio Nazionale, aveva chiesto l’Armistizio alle Forze Armate Anglo-Americane.
Come di consueto fu tenuta l’assemblea per l’ammaina bandiera e la Preghiera del Marinaio. Il Comandante tenne un discorso di circostanza, invitando tutto il personale ad essere calmo e ad osservare la massima disciplina. Si disse certo che avrebbe avuto precise disposizioni dal Comando Marina; pose in stato di allarme tutto il personale, raddoppiò le sentinelle nei punti prestabiliti dal piano di difesa e nella tarda serata inviò una pattuglia armata in perlustrazione lungo la provinciale fin nei pressi di Calato.
Feci parte della pattuglia di nove Marò,_comandata da un Sottocapo. Eseguimmo la missione senza rilevare niente di anormale; tutto era tranquillo e verso l’una rientrammo in batteria. Era stata una giornata intensa sul piano delle emozioni, e andai subito a dormire. Il mattino del giorno 9 fui svegliato da colpi di cannone, mi alzai in fretta e nel piazzale davanti alla Caserma chiesi che succedeva. Mi fu indicata la Base Aerea di Gadurrà, dove si vedevano ad occhio nudo mezzi corazzati tedeschi che stavano entrando nell’Aeroporto.
Il Tenente dette subito l’ordine di puntare i nostri cannoni in direzione della Base, facendo intendere chiaramente le sue intenzioni, ma il Comandante poco dopo fece rimettere i cannoni fronte a mare.
Sentivamo sparare in tutta l’isola, e nella Base Aerea i tedeschi erano sempre in movimento. In batteria tutto il personale era al proprio posto, noi del plotone di emergenza eravamo sul piazzale in attesa di ordini, ci furono consegnate bombe a mano e altri caricatori. Nella tarda mattinata vedemmo spuntare dalla provinciale che viene da Rodi e passa alle spalle dell’aeroporto una colonna tedesca composta da autoblinde, carri armati e 3 grossi cannoni trainati. Fatti un centinaio di metri la colonna si fermò, completamente allo scoperto e facile bersaglio dei nostri cannoni.
Ancora una volta il Tenente fece puntare tutto il potenziale della batteria in direzione della colonna. La strada provinciale che arriva fino al villaggio di Lindo tende a salire, poi fa una curva a gomito e discende verso il villaggio. Ecco, proprio nella curva suddetta, e solo in quel punto, la nostra potenzialità di fuoco è ridotta a meno del 10%.
Il compito primario della batteria era la difesa del perimetro a nord del Promontorio di Lindo, che comprendeva il porto e la base aerea di Gadurrà.
La colonna tedesca, visto che noi non facevamo nessuna azione di fuoco, riprese lentamente a muoversi, fermandosi però continuamente. Noi del plotone, in quelle ore tragiche, eravamo in attesa di ordini e nel più assoluto silenzio ascoltammo la ‘discussione tra il Comandante ed il Tenente, il quale chiese al Comandante di dare l’ordine di sparare in direzione della colonna tedesca.
Il Comandante si rifiutò di dare l’ordine, il Tenente fece osservare che, se si faceva avanzare ancora la colonna, i tedeschi si venivano a trovare nella posizione più favorevole alla suddetta curva.
Ancora una volta il Comandante disse di no. Il Tenente insistette ancora, mostrando che eravamo nella migliore posizione per far fuoco e con pochi colpi fare fuori la colonna tedesca. Altrimenti avremmo’ messo in pericolo la stessa integrità della batteria e del suo personale.:Il Comandante dichiarò che fino a quando i tedeschi non avessero preso iniziative ostili nei nostri confronti noi non potevamo attaccarli. Il Tenente andò in bestia e, tirando fuori dalla saccoccia che aveva a tracolla una bomba a mano, si rivolse al Comandante dicendogli che le intenzioni dei tedeschi erano chiarissime: non solo avevano occupato la base aerea, non solo sentivamo sparare in tutta l’isola, ma la presenza della colonna tedesca che avanzava, sia pur lentamente, era la dimostrazione che avevano intenzioni ostili nei nostri confronti. L’eliminazione della nostra batteria era il loro obiettivo.
Il Comandante, dimostrando calma e sangue freddo, nspose al Tenente che la responsabilità di Comando era sua e ne assumeva tutte le conseguenze. Gli ordini li avrebbe dati solo lui, ma avrebbe tenuto nella giusta considerazione i suoi suggerimenti.
Il Tenente si calmò, rimise la ‘bomba nella saccoccia e fece qualche .passo avanti e indietro. Nel frattempo la colonna tedesca si portò lentamente nella posizione a lei più favorevole e si fermò.
È bene ricordare che fin dalla prima mattina le nostre linee di comunicazione erano state interrotte, certamente i tedeschi le avevano tagliate essendo tutte su palo. Quindi la batteria era isolata, non avevamo ricevuto ordini né potevamo informare i Comandi.
Passarono alcune ore e, nel primo pomeriggio, si presentarono in batteria Ufficiali tedeschi chiedendo di parlare con il Comandante. Cosa si sono detti non lo sappiamo, essendo il colloquio svoltosi distante da noi. Il Comandante però lasciò il colloquio e chiamò il Capo Cannoniere, gli ordinò di salire su di un mezzo tedesco e andare a controllare se altre batterie e postazioni della zona si erano arrese come asserivano i tedeschi e riferire.
Il Capo Cannoniere non tornò più e verso il tramonto vi fu un altro colloquio tra i nostri Ufficiali e i tedeschi. Dopo che si furono allontanati il Comandante ordinò: “ai posti di-combattimento”. Il mio plotone ebbe l’ordine di ripararsi in un cavernotto. Passarono alcuni minuti ed il ponte sulla fossa anticarro fu fatto saltare. Cosi iniziò il combattimento. I tedeschi spararono con i mortai sulla Caserma Comando, colpendo il tetto nella parte posteriore ove erano le cucine. Si sviluppò un incendio che presto si allargò al dormitorio marinai e agli altri alloggi. Noi rispondemmo con le mitragliere ed il pezzo anticarro. I tedeschi armati con i mitra entrarono in batteria. Si avvicinavano ai pezzi dove erano i nostri artiglieri. A quel punto, vista la situazione e per evitare sacrifici inutili, il Comandante diede l’ordine di arrendersi.
I marinai lasciarono i propri pezzi, noi uscimmo dal cavernotto e per la stradina al centro della batteria, ci avvicinammo con le mani alzate in segno di resa.
Il momento era grave. I tedeschi avanzarono ancora e ci circondarono. Passarono alcuni attimi che sembrarono un’eternità in attesa del giudizio finale. Fortunatamente per noi non spararono; ci misero in fila indiana e per un sentiero pietroso si raggiunse la provinciale e a piedi arrivammo a Calato.
Quel momento particolare è rimasto scolpito nella mia memoria. Rivedo noi con le mani alzate in segno di resa, i tedeschi con i mitra puntati, il sole per metà dietro alle alture, la Caserma in fiamme; un quadro tinto di rosso e di sangue, una scena rimasta nella mia memoria e che ricorderò finche sarò in vita.
Arrivati ai Depositi dell’Aeronautica a Calato, ci fecero entrare in un magazzino e ci lasciarono; ero stanco e avevo fame, mille pensieri’ attraversarono la mia mente. Eravamo in un’isola ad oltre duemila chilometri da casa, sentivamo ancora sparare. Ma che succedeva nell’isola? Avevo vent’anni e avrei affrontato gli avvenimenti da marinaio e da Italiano secondo il giuramento che avevo fatto a La Spezia, fedele al Governo legittimo del mio paese. Con questi pensieri mi addormentai.
Era il 10 settembre, primo giorno di prigionia. I magazzini si trovavano in una piccola conca circondata da alcuni rilievi sopra i quali vi erano le sentinelle tedesche. Ancora nel pomeriggio sentivamo sparare nel settore sud di Vathi e verso nord, le forze in campo si battevano; resta il dato di fatto però che la base aerea e la nostra batteria erano state neutralizzate e occupate, ed erano posizioni chiave nel settore di Calato.
Nel tardo pomeriggio aerei britannici lanciarono dei volantini. Erano scritti in italiano. Ne raccolsi uno che conservai fino al Lager, me ne disfeci durante una perquisizione; il volantino diceva di combattere contro i tedeschi e farli prigionieri, altrimenti per noi le prospettive erano la prigionia in Germania se riuscivamo a raggiungere il Continente…
Le sentinelle non si vedevano più, sui rilievi circostanti, segno evidente che per i. tedeschi la situazione nel nostro settore era tranquilla. Noi allora ci avvicinammo ai contadini rodioti per chiedere qualcosa da mangiare e dobbiamo a loro se in quei giorni ci hanno dato quel poco che ci ha permesso di tirare avanti, perché i tedeschi non ci davano niente. Eravamo alcune centinaia di militari ma nessun Ufficiale, solo qualche Sottufficiale, e questo ci preoccupava molto perché gli ufficiali erano gli unici in grado di spiegarci la nuova realtà, non solo dal punto di vista militare, ma anche morale, nel migliore dei modi.
Nel pomeriggio del giorno 11 settembre non sentivamo più sparare. Correva voce (Radio Fante) che il nostro Comando a Rodi si fosse arreso ai tedeschi. E noi, che fine avremmo fatto? Saremmo rimasti nell’isola? Forse aveva visto giusto il nostro Tenente, ed ora eravamo alla mercé dei tedeschi. Oppure ci avrebbero trasportato in continente?
Alla base aerea erano arrivati aerei tedeschi. Scaricavano truppe e materiale. Radio Fante fece circolare la voce che i tedeschi ci avrebbero imbarcati sugli aerei ed al largo ci avrebbero buttati in mare. Nel pomeriggio del giorno 17 settembre arrivarono dei camion tedeschi ai magazzini dell’Aeronautica, dove ormai avevamo eletto il nostro domicilio. Un Ufficiale ci disse di prendere le nostre cose e salire. Noi si rimase un po’ perplessi e fermi, ma l’atteggiamento dell’Ufficiale e gli ordini dati ci persuasero a salire.
Nessuno di noi parlava, eravamo freddi come pezzi di ghiaccio. Il tragitto fu breve, entrammo nell’Aeroporto e i camion si affiancarono alla pista. L’Ufficiale disse che dovevamo portare lo stretto necessario lasciando il superfluo sul prato.
L’aereo era un Juncher 52 da trasporto, il mio gruppo era di circa 25-30 militari ed io fui l’ultimo a salire. L’aereo fu messo in moto e sentivo i motori salire di giri. Pian piano si portò al centro della pista, i motori erano al massimo, acquistò velocità e sentii che si’ stava staccando dal suolo. L’aereo decollò, passò vicino al Monte Vikla dove era la nostra batteria e il villaggio di Lindo, poi fece una virata e prese la sua rotta.
Noi ci guardavamo in faccia senza parlare, silenzio assoluto, solo il rombo dei motori. Dopo aver guardato per un po’ il panorama, non essendoci nessun divisorio, guardai i due piloti. Erano molto giovani, parlavano tra loro come se fossero seduti al bar e ogni tanto una risata. Questa’ loro tranquillità trasmise a noi tutti una ,speranza di un viaggio abbastanza tranquillo, anche se qualcuno si sentì male. Passò circa un’ora e visto che tutto era tranquillo si cominciò a parlare tra noi e guardare ciò che madre natura offriva al nostro sguardo: un mare stupendo, isole, isolette e scogli erano sotto di noi; il tempo passava e qualcuno disse che stavolta Radio Fante aveva preso un grosso granchio.
Il sole tramontò e in lontananza vedemmo accendersi le luci di una pista, l’aereo fece una virata, diminuì di velocità, i motori rullavano al minimo e prese la giusta direzione per la pista. Dopo alcuni secondi sentimmo il rimbalzare delle ruote sulla pista, rialzarsi e poi toccare nuovamente la pista. Noi ci guardammo in volto e senza parlare ci venne il sorriso; finalmente eravamo sulla terra, questa martoriata terra, piena di tragedie e di lutti. E noi, Militari italiani, prigionieri dei tedeschi, non sapevamo niente del nostro destino.
Il mitragliere tedesco scese dal suo abitacolo e aprì lo sportello, iniziammo a scendere avviandoci verso un Hangar ove trovammo alcune centinaia di militari italiani. Dopo un po’ arrivarono degli Ufficiali tedeschi. Uno di questi iniziò a parlare in un italiano abbastanza comprensibile, ci chiamò traditori, ma potevamo rimediare riprendendo le armi insieme con la Grande Germania per continuare la guerra fino alla vittoria finale.
Se andavamo volontari avremmo avuto lo stesso trattamento del soldato tedesco e presto saremmo andati in Italia a combattere contro gli invasori Anglo-Americani.
Queste furono le loro proposte:
1. prestare giuramento a Hitler combattendo con l’esercito tedesco
2. prestare servizio ausiliario armati
3. prestare servizio ausiliario disarmati
4. dichiararsi prigionieri e accettare il campo di concentramento con tutte le conseguenze che ne derivavano.
Dopo aver terminato il suo sermone l’Ufficiale chiese: “chi è favorevole ad andare volontario con la Germania deve fare un passo avanti”. Nessuno si fece avanti.
L’Ufficiale parlò ancora cercando di convincerci, e alla fine ci minacciò dicendoci che avevamo avuto l’ardire di levare le armi contro la Germania.
Dopo, a bordo di camion della Wehrmacht, ci trasportarono prima alla Caserma del 3° Granatieri di Sardegna, e l’indomani in un campo militare ex italiano alla periferia di Atene dove rimanemmo alcuni giorni. Il giorno dopo il nostro arrivo, al campo vedemmo arrivare oltre un centinaio di Ufficiali tra cui i nostri tre, tutti provenienti da Rodi, ma escluso i nostri non conoscevamo nessuno. La sera nella baracca discutevamo di come era stato possibile che oltre 35.000 militari italiani fossero stati sopraffatti da circa 7-8.000 tedeschi anche se ben armati.
Di chi era la responsabilità? Come si era comportato il nostro Comando a Rodi? Il tempo e la storia stabiliranno come sono andate veramente le cose. Il giorno dopo tutti gli Ufficiali superiori partirono per ignota destinazione, rimasero solo gli Ufficiali fino al grado di Capitano. Nelle prime ore del pomeriggio del 24 settembre, venimmo inquadrati e uscimmo dal campo: la colonna si distese con ai lati le sentinelle tedesche. A passo spedito ci avviammo verso il centro di Atene e, come avviene in queste circostanze, ognuno cercò di stare con i propri amici, con il proprio reparto, ricreando così l’atmosfera antecedente l’8 settembre. Non saprei dire quanti eravamo della “Batteria navale Dandolo”, posso affermare che eravamo un gruppetto con in testa i nostri tre Ufficiali.
Mentre si attraversava la città, la popolazione ci guardava e, come in tutte le tragedie di questo mondo, si notava chi era veramente dispiaciuto e chi invece ci sfotteva e ridendo faceva dei gesti con le mani. Certo avevamo fatto una triste fine, da alleati a nemici e, per giunta, prigionieri, da occupanti in terrritorio straniero a sfilare per le vie di Atene davanti ai Greci che, fino a pochi giorni prima, erano sotto la nostra legge.
Ad un certo punto si cominciò a cantare le nostre canzoni, forse è nel nostro carattere di italiani, ma cantando si voleva dimostrare che accettavamo la sorte toccataci, ma che in fondo non eravamo noi i colpevoli di quanto accaduto, ma se colpa vi era andava cercata negli alti comandi, nel governo fascista e di Mussolini in prima persona.
Alla stazione ci consegnarono viveri per tre giorni, in ogni vagone si salì in cinquanta e la tradotta di carri merci scoperti carica di militari italiani prigionieri partì per ignota destinazione.
Era il 24 settembre 1943
Mentre si voltava le spalle all’Egeo, in questo mare, si era appena consumata la tragedia della Motonave “Gaetano Donizetti”».