L’altra testimonianza, con la quale vorrei interagire, è appunto il dipinto benedettino. In esso non compare la colonna, forse a causa delle due gigantesche protagoniste che incombono in primo piano: il monumento dovremmo immaginarlo alle nostre spalle e pertanto si offre una visione della piazza soltanto parziale, come sfondo del miracolo, uno sfondo che -contrariamente a quanto supposto – riterrei preciso ed attendibile nel descrivere i principali edifici che si affacciano sul lato orientale della stessa. Come è logico aspettarsi, in posizione preminente notiamo la facciata di sant’Andrea della cui analisi si è già occupato Alessandro Naldi; vorrei qui solo rimarcare come la presenza, anche in questo caso, di una facciata a salienti debba necessariamente porre fine al tormentone sull’aspetto primitivo dell’esterno di sant’Andrea e togliere ogni dubbio a riguardo.
A osservare con attenzione l’immagine, questa si rivela inaspettatamente ricca di particolari significativi: dalla torre campanaria in cui è visibile il quadrante rotondo dell’orologio, alla cupola che svetta al di sopra dell’area presbiteriale di sant’Andrea, dettagli ignorati dai più, anche da chi ebbe il merito di rendere nota la pittura; mentre il palazzo pretorio, correttamente posto alla nostra destra, è delimitato dalla piazzetta della propositura la cui area appare leggermente dilatata ma realisticamente ornata nel prospetto da un piccolo balcone. Il palazzo pretorio, in questa che ne diviene l’unica rappresentazione antica a noi nota, mostra la massiccia mole che ben conosciamo, ornata in facciata dal tabernacolo robbiano della cosìddetta Madonna degli ebrei (ora conservato nel museo della Collegiata), fornendo di sé un aspetto non troppo dissimile da alcune foto del primo Novecento. Se non compaiono gli stemmi podestarili, che la locale storiografia ricorda apposti ed anch’essi abbattuti in gran parte nel 1799, forse omessi dall’anonimo pittore in quanto considerati un dettaglio marginale anche per le ridotte dimensioni della pittura, è invece possibile notare la diversa disposizione delle finestre sul lato antistante la piazza, minori rispetto all’attuale edificio e limitate a due soli piani, nonché la presenza di un’altana lungo il lato della piazzetta, successivamente scomparsa. L’immagine rivela pure sulla destra la presenza di una torre, probabilmente la torre campanaria ricordata dalle fonti, ancora in laterizio, mentre l‘edificio principale risulta già intonacato. La torre sarà successivamente inglobata nel palazzo che parrebbe inoltre presentare, in prossimità del portale, una scalinata lungo l‘intero prospetto, forse un arengario [1].
Osservando il dipinto notiamo che le figure delle due protagoniste, come pure gli edifici stessi, poggiano – ma sarebbe più esatto dire – galleggiano su di una campitura uniformemente rossa, che danneggia non poco la tridimensionalità della pittura. Sarebbe un superficiale errore considerare ciò come una libertà da parte dell’anonimo, ed in verità modesto, autore, in quanto è storicamente attestato come l’intera piazza, probabilmente sin da epoca medioevale, era rivestita in cotto, al quale, in maniera certo ingenua, il pittore volle in tal modo alludere. Di questo fatto, cioè della pavimentazione in mattoni, avevo già dato notizia vari anni fa ricordando che, nel 1802, fu stabilito dalla Mairie di Luigi Busoni di sostituire i mattoni oramai consunti con quelle lastre riquadrate di Gonfolina, poi poste in essere solo nel 1829 allorchè, in luogo della distrutta colonna e dell’effimero albero della Libertà, fu eretta la classicheggiante fontana di Pampaloni con le tre Naiadi, geometricamente inquadrata dagli statici leoni del Giovannozzi i quali, col tempo, hanno appunto dato origine all’attuale toponimo che quotidianamente indica la piazza[2].
Questa osservazione, solo apparentemente banale, mi spinge ad affermare che il rosso doveva apparire come il colore dominante della piazza del mercato, già molto tempo prima che questa divenisse piazza della Collegiata o del Duomo. Rosso il mattonato, ma rossi anche gli edifici che vi si affacciavano – come testimoniano i pochi lacerti recuperati presso il lato occidentale della piazza – con quegli archi elegantemente decorati a ghiere stampate, o l’arcata, sia pur frammentaria, all’ingresso dello stesso pretorio, il quale, analogamente agli altri edifici cittadini (ad esempio la chiesa ed il convento agostiniano), prima della loro imbiancatura, dovevano apparire con la muratura in laterizio a vista.
Ecco allora spiccare ancora una volta l’unicità della facciata di sant’Andrea, fulgida e luminosamente brillante, quasi accecante nello splendore bicromo del rivestimento marmoreo, chiara e palese volontà da parte di Rolando (o chiunque altro sia stato) di distinguersi in modo netto da quanto la circondava, nella ricchezza dei materiali ma anche nella cromia.
Gioverà anche ricordare che davanti ad essa si stagliava al tempo delle nostre immagini la massiccia architettura del palazzo Giomi (poi Ghibellino), con la facciata da poco affrescata, sgargiante di tonalità acidule di sapore tardo manierista. Trovo inoltre oltremodo intrigante riflettere sul fatto che le pitture a tema mediceo da me riferite a Lorenzo Bonini risultino coeve all‘iscrizione nella base della colonna del Marzocco, pur non essendo in grado di verificare o meno l’esistenza di eventuali nessi tra i due monumenti posti l’uno di fronte all’altro[3], mostrando un vivido contrasto tra passato e presente, tradizione e modernità, contrasto di fronte al quale i cittadini non dovettero restare indifferenti.
I mutamenti intercorsi successivamente, il lastricato d’arenaria, l’erezione della fonte marmorea, gli edifici intonacati, la perdita delle pitture murali, in coerenza col mutato ruolo della città stessa, hanno progressivamente modificato l’aspetto primitivo della piazza, rendendo per noi difficilmente comprensibile come un luogo sul quale i nostri passi scorrono quotidianamente, un tempo sia stato così diverso da come si sia abituati a ri/conoscerlo.
(Fine) ©Walfredo Siemoni – riproduzione riservata
[1] Questa e poche altre informazioni sull’edificio si ritrovano in: Valfredo Siemoni, La rappresentazione degli edifici nelle fonti documentarie in Empoli città e territorio. Vedute e mappe dal ’500 al ’900, Empoli, 1998, alla voce: Palazzo Pretorio, p. 157.
[2] Valfredo Siemoni, L’immagine della città, in: ivi, p. 126; nota 20 p. 160.
[3] Valfredo Siemoni, Lorenzo Bonini, pittore e dissegnatore, Empoli, 2015.
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