Dopo il successo di partecipazione del “Giro con delitto”, svoltosi martedì 4 luglio, pensiamo di fare cosa gradita pubblicando il testo del “giallo storico” al centro della serata, così da permettere a tutti una sua comoda lettura.
Oggi pubblichiamo la prima parte, intitolata “Storia di un pugnale”; nelle settimane che verranno troveranno posto in questa sede anche le altre tre sezioni del giallo, corrispondenti alle altrettante tappe del giro storico.
Primo intermezzo
Storia di un pugnale
Buonasera a tutti. Mi presento: sono un pugnale. Scusate se ho l’ardire di parlare e mettermi al centro dell’attenzione, quasi come se fossi un’arma famosa, a esempio una spada appartenuta a qualche grande condottiero o a un eroe dei poemi epico-cavallereschi, come la Durlindana del prode Orlando. Niente di tutto ciò, purtroppo. Io sono un pugnale qualunque, come se ne trovano molti nelle botteghe artigiane degli armaioli di mezza Europa. Mi presento meglio, affinché possiate comprendere appieno la mia ordinarietà. Ho una lama fissa quadrangolare lunga circa 20 centimetri, su cui sono state incise quattro scanalature vagamente disposte. La mia lama termina con una piccola elsa su cui il buon artigiano che mi produsse fece incidere la scritta “Johannes Muller Solingen civitati fecit, 1623”. Termino con una impugnatura a sbalzo, di ferro brunito, che finisce con un piccolo pomello. Il mio creatore, per la verità, avrebbe voluto arricchirla con un lavoro in argento ma visto che il mio primo acquirente, un lanzichenecco al servizio del generale Wallenstein, aveva speso i suoi ultimi soldi derivanti dal saccheggio in vino e donne, la lasciò così.
I puristi e i fini conoscitori delle armi bianche mi definirebbero uno stiletto o un quadrello ma io non sono mai andato troppo per il sottile. Insomma, io sono questo, non di più: un’arma come ce ne sono tante in giro, soprattutto in questi anni turbolenti di guerre di religione. Detto questo, vi prego tuttavia di non sottovalutare la mia importanza, almeno questa sera. Dovreste sapere, infatti, come a volte uomini e armi comuni possano cambiare drasticamente la Storia, quella con la S maiuscola. Non siete convinti? Volete un esempio? Eccovi serviti. Solo quindici anni or sono fu un comune insegnante, il fanatico cattolico Francois Ravaillac, a uccidere con un coltello da cucina rubato in una squallida taverna da due soldi il re di Francia, Enrico IV di Borbone. La notizia fece molto scalpore anche qui, perché il re di Francia aveva sposato da poco Maria dei Medici, figlia del granduca Francesco I.
Se stasera occupo la scena, quindi, è perché, mio malgrado, anche io sono il protagonista di una storia simile. Di questa storia, certamente meno di impatto di quella di Enrico IV, con minori conseguenze per le sorti dell’Europa ma comunque importante per le storie degli uomini che l’hanno vissuta.
Al momento però questa storia non è ancora iniziata: infatti sto riposando sotto il tabarro del mio padrone, che mi ha estratto qualche minuto fa dalla scatola in legno foderata di velluto nella quale giacevo. Dalla concitazione dei suoi passi e dal sudore sulla mano che mi impugna, so però che sarò estratto a breve. Tra poco, infatti, verrò utilizzato per compiere un efferato omicidio.
Notte del 3 settembre 1625, Empoli, Granducato di Toscana. Arrivano fin qua gli echi della guerra che sta insanguinando e devastando l’Impero, una carneficina che oppone cattolici e protestanti sul suolo tedesco. Dopo una calda giornata di fine estate, è arrivato il buio e una leggera brezza si è alzata, facendo mulinare cumuli di polvere e foglie negli angoli del castello. Matteo Marchetti, tesoriere del Monte Pio, la vera e propria banca locale, sta facendo ritorno a casa dopo una dura giornata di lavoro. Ha lavorato fino a tardi, al lume della candela che andava via via consumandosi, facendo quadrare i conti e i registri contabili. Ha predisposto qualche giorno addietro la vendita di beni avuti in pegno in cambio di prestiti in denaro e la somma che il Monte ha ricavato è ingente. Si tratta di una piccola fortuna: circa 2000 scudi. Il Marchetti ha riposto il denaro in una cassa rinforzata, la cui chiave tiene appesa al collo, lontano da sguardi indiscreti e protegge a costo della vita. È un uomo scrupoloso e sa come si gestiscono grandi somme di denaro: si dice che abbia pagato una somma da capogiro per la dote di Elisabetta Cella, sua moglie, figlia di uno dei mercanti più in vista di Empoli. Qualche anno fa il loro matrimonio era sulla bocca di tutti: due tra le famiglie più ricche e in vista si univano con uno sposalizio strategico per entrambe. Il Marchetti è un uomo di mondo, sicuro di sé e di ciò che fa. Adesso tuttavia appare inquieto, perché si volta continuamente dietro di sé per scrutare le ombre che strisciano negli angoli bui dei vicoli del castello, rese più nere dalle poche torce fissate sui muri delle abitazioni, a distanza regolare, che formano piccole oasi di luce. Forse qualcosa non gli quadra, visto che affretta il passo. Poi si ferma, i suoi stivali non battono più sui ciottoli della via.
“Chi va là?” esclama. Forse ha sentito dei passi. Forse crede che qualcuno lo stia seguendo, su per la via che conduce al baluardo voluto da Cosimo I per proteggere Empoli durante la guerra di conquista di Siena, che si erge cupo e silenzioso nella notte. Solo il vento e un debole richiamo di un uccello notturno rispondono alla sua domanda. Le mura tuttavia, salvezza per l’intera comunità in più di una occasione, questa volta hanno tradito un loro protetto. Hanno distorto l’eco prodotta dal mio padrone che si sta avvicinando al suo appuntamento non richiesto.
Perché Matteo Marchetti, a furia di guardarsi alle spalle, non si avvede che una figura è uscita dall’ombra vicina alle mura del baluardo e sta alzando contro di lui il braccio destro. Posso vedere per un attimo lo sguardo di terrore del tesoriere che mi guarda con occhi sgranati, pieni di sorpresa. Godo solo per pochi istanti dell’aria frizzante della notte, prima di essere sospinto verso il corpo del malcapitato una, due tre volte.
Prima penetro nella congiunzione tra petto e spalla, poi poco sopra il cuore, infine in pieno petto. La mia lama affilata squarcia con facilità la carne e crea brutte ferite, da cui inizia a sgorgare copioso il sangue. Soltanto il terzo colpo, tuttavia, è quello decisivo. Matteo Marchetti crolla sull’acciottolato emettendo un lamento che sembra un sospiro. Non un grido, non un rumore: solo, un rantolo soffocato ha accompagnato le pugnalate. Nessuno deve avere sentito, nessuno deve avere visto. Eppure, il mio padrone improvvisamente si irrigidisce: forse ad una finestra si è accesa una candela dentro una bugia, forse qualcuno si sta affacciando a osservare la scena dalle case circostanti. Oppure da una porta è uscito un mercante che parte di buon’ora con le sue mercanzie, diretto verso mercati lontani a cui spera di arrivare con le prime luci del mattino.
L’assassino sembra inginocchiarsi accanto alla vittima, e allungare la mano per toccarle il collo. È solo un attimo, poi si alza e se ne va con passo deciso lungo via Ferdinanda, per poi svoltare verso l’antico quartiere ebraico. E così, mentre il rumore dei passi concitati del mio proprietario ci allontanano dal luogo del delitto, poco distante Matteo Marchetti giace inerte sulle pietre fresche del castello di Empoli e con gli occhi al cielo agonizza in attesa di spirare.
by
Alcuni anni fa lavoravo in un biblioteca della “cintura fiorentina” ed è stata un’esperienza molto bella: c’erano tantissimi utenti tra cui anche alcune signorine Alighieri, c’era la casa del pianista, che venne abbattuta per fare degli ampliamenti al tratto autostradale, c’era un pino stranissimo che quando la mattina scendevo dalle colline si stagliava in lontananza dalla strada e sembrava un dirigibile e c’erano gli operai della Zanussi, che in quei giorni stavano vivendo momenti molto drammatici. Il responsabile della biblioteca era un ex maestro di scuola e tutti i santi giorni verso le 10 celebrava un rito di scolastica memoria che era ed è molto caro anche alle persone della mia generazione: il rito della schiacciata. Quando quella mia esperienza è finita mi ero riproposta di scrivere un resoconto di quei giorni memorabili proprio ispirato a quel rito: “Memorie di una schiacciata”. Come è noto, l’opera non ha mai visto la luce, forse perchè il titolo, al di là del chiaro richiamo alla cucina e alla scienza alimentare, che a me sono molto care, sarebbe stato perfetto per un giallo e io non ho mai avuto alcuna familiarità con questo genere letterario. Venendo, invece, alla storia del delitto empolese del povero Matteo Marchetti, è certo questo un nuovo modo di elaborare la storia comunitaria, che prelude non solo ad una apertura a questo particolare genere letterario, ma anche al fantasy e forse anche ad una nuova elaborazione mitica della storia empolese. Del resto, la storia basata sul rapporto diretto ed esclusivo con le fonti, non concede poi molto alla fantasia. Tutto ciò potrebbe avere importanti ricadute dal punto di vista identitario, per prevenire o contenere forme di degrado e disgregazione sociale, favorire la partecipazione e soprattutto per creare un ponte tra le vecchie e le nuove generazioni, sempre più attratte dai miti del villaggio globale. Il genere letterario del giallo potrebbe permettere poi di creare maggiore interesse per quella che potremo considerare la normalità, in questo caso quella della Empoli del 1625. Si è di fronte insomma ad un nuovo modo di produrre memoria che potrebbe servire anche ad esorcizzare nuove ed antiche paure. Del resto, anche la produzione di una vera e propria storiografia non può prescindere dal punto d’arrivo e corrisponde ad una visione capace di gettar luce solo su determinati fatti e non su altri, altrimenti rischieremmo di replicare il passato e di non vivere il presente in modo innovativo. Mi piace pensare, però, che le leggi della storia appartengano ad un particolare ordine della fisica, in cui l’esplicarsi delle forze collettive e individuali concorrano al raggiungimento di un determinato equilibrio, che è quello dello stato democratico, che ritengo debba essere considerato il vero punto d’arrivo. Onde ben venga l’intrigo, ben venga il fantasy, ma io preferisco lasciare ad altri la rappresentazione del delitto. Per me è di gran lunga preferibile la non violenza e mi piace pensare a un mondo che non è governato dal caos e in cui accanto ai valori del lavoro e della verità, trovino il loro spazio anche i valori della spontaneità e del rispetto dell’ individuo. Ed ho la certezza che anche nella mia città vi siano spazi e iniziative già ben avviate in questa direzione.
Nel complesso quindi reputo molto interessante l’operazione
Gentile lettrice,
le scrive l’autore. La ringrazio innanzitutto per il suo commento e per le parole di apprezzamento che ha avuto nei confronti del testo. Oltre a questo ci tenevo a precisare che tutta la vicenda che ruota intorno all’omicidio di Matteo Marchetti del 1625 è vera ed è frutto di una ricerca d’archivio che il sottoscritto ha compiuto presso l’Archivio di Stato di Firenze. Certo, l’evento è stato romanzato e messo in una forma che potesse accattivare e appassionare i partecipanti al giro storico ma, ed è questo il dato fondamentale, gli apporti di fantasia e drammatizzazione sono stati minimi.
Vero è l’omicidio, vera la vittima, vero il modo in cui è stata uccisa, veri i fatti, degni di un romanzo di “cappa e spada”, che potrà leggere, se lo vorrà, nelle prossime pubblicazioni del giallo. Unico dato inventato è l’assassino, visto che non sono riuscito a trovare il relativo processo e quindi non sappiamo, allo stato delle cose, chi sia stato effettivamente incriminato. Quello che è stato inventato, tuttavia, risponde alla logica del plausibile e del verosimile. Non parlerei quindi di “fantasy” ma di una vicenda vera con apporti da “romanzo storico”.
Dopotutto il prof. Gaetano Greco spesso diceva che gli storici, anche quando inventano la realtà, spesso colgono nel segno.
A presto per le prossime puntate del giallo,
Gabriele Beatrice