Continua la pubblicazione del giallo storico al centro del giro con delitto. Siamo alla seconda tappa della nostra storia, intitolata “Un birro e qualche passo indietro”.
Buona lettura!
Secondo intermezzo
Un birro e qualche passo indietro
Mi sveglio di soprassalto, il cuore batte nel petto all’impazzata. Buio. Notte fonda. Un incubo? Riordino le idee. No, qualcos’altro mi ha svegliato…mi sembrava…forse…un urlo, sì, ora lo sento. Viene dalla scale e rimbomba insieme al rumore di tacchi che battono sulla pietra dura degli scalini. Il suono sale come un vortice e sembra voler aprire la porta chiusa della mia stanza. Scendo dal letto, inizio a vestirmi. È successo qualcosa, un fatto grave. Ma che cosa, qui, a Empoli? Un furto? Un’aggressione da osteria? Cosa, per l’amor di Dio? Prendo il cinturone e la spada, indosso velocemente le brache e il farsetto. Sopra a tutto getto il mantello. Quando Menico, il donzello del podestà, spalanca la porta inondandomi di luce e di suoni, sono pronto.
Mi chiamo Giovanni di Marco e sono un birro. Strano nome per indicare una guardia cittadina, al servizio del giudice locale, il podestà. C’è chi dice che il termine derivi dal colore rosso delle nostre vesti, altri dubitano. Comunque, birro sono e birro rimango. E ora sono chiamato in causa per fare quello per cui sono pagato, la “bellezza” di 14 lire al mese. Certo, c’è di peggio. Mio fratello è andato nello Stato Nuovo, in Maremma, a cacciare i banditi con i dragoni del Granduca. Brutto affare, quello. Una guerra sporca. Io non me la sono sentita: meglio guadagnare meno ma essere sicuri di portare la pelle a casa, la sera. Qui a Empoli, dal giorno del mio arrivo, tutto è filato più o meno liscio. Da quando Ferdinando I ha concesso al podestà di Empoli di dare sentenze anche nel penale e sono state rimesse in funzione le carceri, è stata creata anche una piccola squadra di guardie. Non che accadano cose fuori dalla norma. Empoli è un importante luogo di mercato, girano molti soldi e con il denaro arrivano anche ladri. Furti e imbrogli nelle vendite sono all’ordine del giorno, così come le risse che scoppiano la sera, quando qualcuno alza troppo il gomito nelle osterie del castello e gli animi si surriscaldano. Zuffe, niente più. Qualche cazzotto, un bastone tirato sul groppone. Raro che qualcuno tiri fuori una vera arma. È successo solo qualche mese fa che qualcuno attentasse alla vita di uomo. Per fortuna, però, tutto si è risolto solo con qualche ferita.
Stanotte, però, è accaduto qualcosa di grave. Lo vedo dagli occhi di Menico. Aspetta, parla piano. Spiega meglio. Il Marchetti? Un’imprecazione esce dalle mie labbra, vedo Menico che si fa il segno della croce. Via, di filata. Mi urla dietro che stanno portando il corpo verso il palazzo del podestà: hanno già avvisato il medico condotto. Sono in strada.
Il cancelliere. Devono averlo avvisato. Che cosa ha in mano? Un foglio?
Morto. Il Marchetti è morto. Stringo il referto del medico condotto, ha fatto solo in tempo a vederlo morire. Non c’è stata nemmeno occasione per chiamare un frate di Santo Stefano per far confessare il defunto. È stato ammazzato come un cane. Tre ferite gravi, l’ultima mortale…spalla e petto……aspetta un attimo. Leggo: “ferite prodotte da lama di ottima fattura, forse tedesca e inflitte da una mano destra. Quattro scanalature, pianta quadrata”. Alzo gli occhi fino a incontrare quelli del cancelliere. Lui assente, con fare grave. È tornato.
2 maggio 1625, Empoli, Granducato di Toscana. Quattro mesi prima dell’omicidio del Marchetti. Mi ricordo di quella sera: era un venerdì. Finiti i suoi uffici quotidiani, il cancelliere della comunità, il signor Giovanfilippo Tassinari, aveva chiuso a chiave la porta del suo ufficio e fatto sbattere dietro di sé il pesante portone del palazzo del podestà. Stava imbrunendo e la piazza del mercato era ormai deserta. Percorse il lato corto dei portici deprecando la paglia e le altre brutture che il mercato del giorno prima aveva lasciato in eredità. Ingombravano il passaggio ed emanavano cattivo odore. “Devo suggerire al consiglio del comune e al Gonfaloniere di emanare delle norme a proposito negli statuti” pensò e prese mentalmente nota. Pochi passi e svoltava in canto Ghibellino, in direzione della sua abitazione posta in via del Noce. Il tragitto quotidiano di un uomo ordinario, metodico nella vita e nel lavoro. Quella sera, tuttavia, la routine quotidiana fu stravolta da un evento inatteso. Un grido alle sue spalle:
“Cancelliere, fermatevi un attimo: vi ho da parlare”
“E io non ho nulla da dirvi, buonuomo…andate per la vostra via” rispose il primo, affrettando il passo.
Fu in quel momento che lo sconosciuto tirò fuori una spada. Il Tassinari ebbe appena il tempo di estrarre il suo pugnale, una lama tedesca di Solingen, invidiata all’ufficiale da tutta la comunità per la sua fattura. La lama dello sconosciuto calò rapida, fendendo l’aria con un sibilo. Il pugnale si alzò, intercettando il colpo: lama contro lama, acciaio contro acciaio, si sprigionò un rumore che echeggiò per tutta la piazza. Ancora un assalto, ancora una risposta e così ancora, ancora per un tempo che parve infinito, finché un fendente della spada sembrò mirare, diretto, al cuore ma poi cambiò traiettoria e calò dall’alto, con tutta la forza di cui disponeva lo sconosciuto. Il cancelliere, con un gesto disperato, oppose la sua lama: parò ed evitò il peggio, ma troppo forte era stato il colpo: si accasciò e il pugnale gli saltò di mano. La lama finì vicino agli stivali dell’assalitore. Questi prese il pugnale, lo ripose nella sua cintura e si preparò a trafiggere il cancelliere con la sua spada.
“Fermi, in nome di Dio!”
“Aiuto, all’assassinio” urlò il cancelliere, quasi nello stesso momento.
Una voce dall’osteria di piazza, una porta che si aprì all’improvviso. Rumore di passi di corsa, i garzoni stavano uscendo insieme all’oste. Lo sconosciuto, vista la mala parata, girò sui tacchi e scomparve. Nessuno lo inseguì: i garzoni aiutarono il cancelliere ad alzarsi.
Io e il cancelliere lo sappiamo, parlare sarebbe superfluo. Una brutta storia, finita per fortuna solo con qualche graffio. Le indagini portarono subito a due sospettati: Jacopo Tacchelli e Jacopo di Lorenzo Doni, camarlingo della podesteria. Entrambi avevano validi motivi per avercela con il cancelliere. Il Tacchelli era stato multato dal Tassinari per alcuni casi di mala gestione del denaro del banco cittadino, mentre il Doni era stato accusato di peculato e malversazione del denaro pubblico della comunità. Dopo qualche interrogatorio e qualche buona dose di tortura, il podestà non aveva avuto dubbi: Jacopo Doni era il colpevole. A dire il vero, il pugnale del cancelliere e la spada utilizzata nell’aggressione non furono trovati ma il podestà, uomo pragmatico incalzato da Firenze, era andato per le spicce: il Doni aveva confessato sotto tortura e tanto era bastato. Qualche anno di remo a Livorno e avrebbe pagato i debiti con la giustizia. Quello che sembrava risolto tuttavia ora tornava a perseguitare la comunità: la stessa lama aveva colpito, la stessa mano, la stessa ferocia. Nessun dubbio a proposito. A quanto pare avevamo preso l’uomo sbagliato. Ora non restava che andare dal Tacchelli.
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